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Protesta a Taranto - Foto Vincenzo De Palmis |
«Il sit-in di ieri davanti
alla Prefettura è stato un successo: ne hanno parlato i giornali nazionali e ci
sono i video e foto ovunque. Importante era far sentire la nostra voce e questa
volta siamo riusciti ad essere tempestivi. Il Prefetto di Taranto ha ascoltato
per oltre un'ora le nostre istanze, che in parte ignorava. Grave sarebbe stato
invece il nostro silenzio nel giorno in cui Ilva rientrava in possesso degli
impianti posti sotto sequestro». Così commenta un attivista di Taranto Respira su facebook.com; intanto ancora sul social network è possibile leggere che «la procura di Taranto,
attraverso le perizie epidemiologiche ha accertato che 11.550 sono i morti che
sono collegati direttamente all'inquinamento industriale. 11.550 morti in 7
anni». Gli animi in questi giorni sono in tensione, a causa della decisione del governo di scavalcare l'indipendenza e la terzietà della magistratura. Il Decreto legge 3 dicembre 2012 n. 207 cosiddetto “Salva Ilva” in pratica legittima il reo, cioè l'Ilva, e con l'urgenza propria del provvedimento affranca il gruppo Riva dal rispetto della legge.
Questa questione ha travalicato i confini regionali, ma ancora è palpabile il disinteresse di coloro i quali non vivono ne lavorano a Taranto. Per questo anche all'Università degli Studi Aldo Moro di Bari il sindacato studentesco Link ha organizzato un seminario presso la Facoltà di Scienze Politiche.
«Taranto è una città ospitata
dalla fabbrica, città che si è praticamente prostituita all’acciaio»: ha affermato Roberto Voza, professore di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari. La sua esperienza di docenza presso la sede
universitaria di Taranto è palpabile quando afferma che «stiamo scaricando
sulla magistratura il dovere di fare politica e – continua – abbiamo appaltato
l’etica alla magistratura e questa è una colpa collettiva della politica tutta,
non c’è più un’interrogazione politica collettiva.
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh2TI05D7_vsJLLyvpuT23jxFDQikNssYNee1Th-iSsFsr7UnvvvaeuCWzz073d3cLdZQeQrzsMA8DwXhixtMuX-FafRRJn0XPQWIW86P1ZkgC6dY8yecsV6vIUeODMSu47JPf6VbqaPmly/s320/images.jpg)
Franco Chiarello, professore
di Sociologia dei processi economici e del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Bari, ha dichiarato che «bisognerebbe portare fuori
da Taranto alcune riflessioni urgenti, perché riguardano non solo la città jonica.
Taranto è la tessera di un mosaico che riguarda Brindisi, Porto Torres e altre
città in cui prevalse l’idea che per portare lo sviluppo occorreva impiantare
grandi stabilimenti produttivi imposti dall’esterno, la teoria americana del big push doveva cambiare il volto al
Mezzogiorno d’Italia».
Taranto effettivamente muta la sua pelle dopo gli
investimenti: aumenta la popolazione, si registra un forte pendolarismo e una
immigrazione, al contrario delle altre città del Meridione. Tutto ciò fu possibile grazie all’apporto dei due grandi partiti
di massa, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista; «questa convergenza di
interessi fu figlia di una comune ideologia del tempo: la rete clientelare
della Dc e l’idea di una proletarizzazione di massa dei contadini del Pc. Il
denominatore comune era una cultura industrialista, nella quale non avevano
spazio la cultura della salute e dell’ambiente. Per i contadini pugliesi la
fabbrica era un’emancipazione dalla fatica delle campagne, rappresentava la
sicurezza dl posto fisso».
I pendolari divennero i metalmezzadri.
«A Taranto – continua Chiarello – si creò una aristocrazia operaia, gli operai si sentivano parte di un’élite. Tutto questo
trasformò il territorio tarantino, un territorio di grande pregio agricolo, dove la cantieristica
navale aveva uno spazio rilevante. La città s’identificava con la fabbrica, ma intanto a partire dagli anni Novanta si
sapeva che un insediamento come quello dell’Ilva era dannoso per la salute e
per l’ecosistema e intanto il lavoro cambiava, si faceva avanti la
precarizzazione del mondo del lavoro e il modello stesso
dell’industrializzazione, Taranto avrebbe potuto e dovuto fare un passo avanti».
Da sinistra: prof. Franco Chiarello e prof. Roberto Voza - Foto Archivio Vito Stano |
Ma il professor Chiarello non si spinge oltre affermando che «il modo di produrre dell’Ilva è tra i più arretrati d’Europa e del mondo. Non
so se la Puglia di oggi possa convivere con questi impianti produttivi. Le
classi dirigenti tarantine hanno continuano a perdere tempo prezioso, senza
l’intervento di un potere terzo (la magistratura, ndr) non si sarebbe mai messo
mano ad un nodo così aggrovigliato come è quello tra lavoro e salute. La
responsabilità politiche sono enormi, io penso – dice Chiarello – che se si riduce la natura a
semplice merce, come in passato ha fatto la cultura marxista, e non si immagina un nuovo
futuro, da questa situazione non ne se esce. Lo sviluppo non è opera di un solista, lo sviluppo deve essere polifonico, occorre perciò fare un censimento delle
risorse ambientali e culturali del territorio. La politica deve coinvolgere i cittadini e soprattutto i
lavoratori dell’Ilva al più presto in una progettazione partecipata.
l’Ilva – afferma il sociologo – paradossalmente era il soggetto più cosciente tra i protagonisti che hanno giocato attorno alla vita di Taranto, prova ne è il fatto che, con una rete di corruttele e regalie, il gruppo Riva cercava di occultare i fatti».
Elvira Tarsitano, presidente
Associazione biologi ambientalisti pugliesi, ha fatto il punto sul concetto di sostenibilità. «Sostenibilità significa anche parlare di cultura, di socialità e di economia. Non
credo che si possa continuare a produrre in questo modo e forse dopo i trentasei mesi previsti nel decreto legge “Salva Ilva” il gruppo industriale andrà altrove».
«Da un eco villaggio indiano alla fabbrica tarantina, il fascino dell’industria quasi da film cyber punk non ti lascia indifferente»: così si presenta Marcello Colao, ingegnere
ambientale, ex lavoratore dell’Ilva di Taranto, poi licenziatosi a causa della presa di coscienza della grave situazione. «Le
dimensioni dello stabilimento dell’Ilva sono sproporzionate rispetto alle
acciaierie europee – dice Colao – e la mancanza di sicurezza nei pressi dei convertitori della
ghisa, assurdo. Bisognerebbe studiare i valori
compatibili con la vita, facciamo un passo indietro e cerchiamo soluzioni
alternative. Colao chiude ponendo la questione delle questioni: «produrre si, ma fino a che punto?».
Alfredo Ferrara, dottorando presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari e animatore dei Quaderni Corsari, si dichiara d’accordo con la proposta del
reddito di cittadinanza per affrontare l’uscita dalla società industriale, in
quanto oggi la dicotomia tra lavoratore e disoccupato così familiare nel
dopoguerra non c’è più, oggi Totò e Aldo Fabrizi, protagonisti di Ladri di
biciclette di Monicelli, sono due facce
della stessa medaglia (A. Ferrara).
I punti di vista su Taranto aumentano ad ogni incontro e le soluzioni non approdano in nessun porto; quindi cosa emerge da queste discussioni? Domande, domande e ancora domande: per esempio a chi la responsabilità dei
lavori di manutenzione e di ambientalizzazione, ai responsabili del disastro ambientale? E poi ancora la globalizzazione ha
spostato nel Sud del mondo le produzione per poter inquinare senza grandi freni
e produrre senza rispettare i diritti dei lavoratori e dei cittadini?
Contraddizione clamorosa tra
globalizzazione ed ecosistemi: l’Occidente ha tracciato la strada da percorrere al
resto dei Paesi, ma la grande parte dell'inquinamento mondiale si produce ancora nei Paesi occidentali. Intanto, per citare qualche caso interessante, la provincia cinese del Guangdong, gemellata con la Puglia, ha dismesso
un grande impianto e lo ha ricomposto in cinque piccoli impianti meno
impattanti (F. Chiarello).
Potrebbe essere una soluzione? Ecco una altra domanda.
06.12.2012
Vito Stano
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