a cura di Vito Stano
Con questa conversazione provo a riannodare i fili dei ricordi della
vita inglese. Già troppi anni sono passati e a volte mi pare un'altra vita e, in effetti, per certi versi lo è, ma ci provo lo stesso a ricordare e con la scrittura a stimolare la memoria di coloro che come me hanno vissuto lontano da casa con l'idea, sempre in testa, di tornare un giorno.
Il ritorno ideale nel Regno di Sua Maestà Elisabetta II lo
facciamo con Giuseppe Laterza: ci eravamo lasciati il 9 giugno con il racconto
di un expat giovanissimo (Piero Campanale) e con questo racconto esperienziale
torniamo a volgere lo sguardo al passato e a cercare di capire le ragioni
dell’andata fuori confine e le ragioni del ritorno in patria.
Chi è Giuseppe Laterza? Sono Giuseppe Laterza, ho 38 anni. Un ragazzo cassanese tornato al paese
da qualche anno. Fino ad allora ho vissuto tra Bari e Portsmouth, in
Inghilterra appunto. Sono laureato in psicologia e mi occupo di gestione del
personale in una società di consulenza informatica.
Quando sei partito la prima volta e quali sono state le ragioni della
primissima partenza? Sono partito per la prima volta nel 2010. Ero fresco di
laurea triennale (2008) e stavo frequentando la specialistica, mi mancavano
pochi esami, ma la riforma Gelmini in quegli anni portò grandissima confusione
e disorganizzazione in un sistema universitario già pesantemente compromesso.
Tra la mancanza di informazioni, corsi di studio cancellati, esami rimandati e
professori demotivati, nell’incertezza più totale, decisi di non perdere altro
tempo e non farmi prendere dallo sconforto. Così partii per cambiare aria.
Perché hai deciso di andare in Inghilterra e perché quella città? Beh, professori e professionisti ci avevano sempre detto che la conoscenza
della lingua inglese era fondamentale per farsi strada nel mondo del lavoro,
quindi quale posto migliore dell’Inghilterra per imparare? Inoltre, un mio caro
parente vive a Portsmouth da molti anni e chiesi supporto a lui, per evitare di
muovermi completamente al buio.
La tua esperienza inglese, in realtà, è un insieme di periodi
più o meno lunghi: sei sempre stato nella stessa città? In realtà dal 2014 in poi ci sono tornato più volte. Ho vissuto in
Inghilterra per un totale di 3 anni. I primi due anni continuativi, dal 2010 al
2012, poi ci sono tornato nel 2014 per 6 mesi, nel 2016 per 4 mesi e nel 2017
per altri 6 mesi.
Parlavi già inglese o lo hai imparato con la pratica
quotidiana? Quando sono partito per la prima volta non lo parlavo assolutamente. La
conoscenza scolastica non mi ha aiutato affatto. Ricordo che fu una sfida anche
arrivare dall’aeroporto di Stansted alla città di Portsmouth il primo giorno.
Quando chiedevo informazioni la gente mi guardava quasi stessi parlando una
lingua aliena e i primi tre giorni mi sono chiuso in camera per paura di
incontrare qualcuno e di doverci parlare. È stata una strana reazione. Poi però ho subito iniziato
a frequentare una scuola, a lavorare, e per forza di cose l’inglese l’ho
imparato. Forse più per istinto di sopravvivenza che per altro.
Che genere di lavori hai fatto? Ho iniziato subito con un super classico, facendo il cameriere
o l’aiuto cuoco in un paio di ristoranti italiani. Andavo a scuola la mattina e
la sera lavoravo. Dopo qualche mese, grazie ad un amico conosciuto proprio in
quel ristorante, ho trovato lavoro in una fabbrica di cavi coassiali (cosa a me
sconosciuta fino a quel momento). A parte un paio di colleghi, gli altri erano
tutti del posto. All’inizio integrarmi è stato difficile, soprattutto a causa
del gap linguistico. Ma poi si sono rivelate tutte persone magnifiche,
tanto che sono tornato a lavorare nella stessa azienda anche nei successivi
periodi.
Sei laureato e specializzato in Psicologia, all’epoca della tua partenza in UK eri già laureato? Hai cercato
Oltremanica un’occupazione adeguata alla tua preparazione accademica? Se sì,
com’è andata la ricerca? Attualmente ho una Triennale in Psicologia Clinica, una
Laurea Magistrale in Psicologia del Lavoro e un Master in Gestione delle
Risorse Umane. Come ho già detto, quando sono partito la prima
volta avevo solo la Triennale e dal momento che non parlavo affatto inglese,
non ci ho nemmeno provato a trovare un lavoro in linea con quel titolo. La
stessa cosa è successa nei successivi periodi. Come puoi immaginare, il mio
lavoro presuppone una conoscenza della lingua e di tanti altri aspetti della
cultura, del sociale e del lavoro del paese ospitante che difficilmente possono
essere appresi in poco tempo. Quindi ogni volta tornavo nei ristoranti o nella
fabbrica di cavi coassiali (il cui proprietario e i vari colleghi ringrazierò
sempre per avermi ogni volta accolto e dato sostentamento). Penso che per lavorare nel mio settore in UK, avrei dovuto viverci per
molti più anni ininterrottamente. Cosa che non mi è stato possibile fare.
Come mai sei tornato e ripartito più volte? Cosa ti spingeva a
tornare in Italia? Il motivo principale è stata la situazione di salute di mia
madre. Era malata da tanto e ogni volta che si aggravava tornavo per starle
vicino. E poi, già che c’ero, studiavo per un altro titolo di studio, per
provare a trovare lavoro in Italia. Quando lei sembrava stabilizzarsi,
ripartivo, dal momento che di lavoro, in Italia, non c’era nemmeno l’ombra. La
mia esperienza è stata sempre un continuo alternarsi di sentimenti diversi, da
una parte la voglia e il bisogno di stabilirsi, trovare un lavoro e iniziare
una vita da qualche parte. Dall’altra parte l’attaccamento e l’affetto per la
mia famiglia (soprattutto in momenti difficili) che, diciamocelo, è quello che
manca di più quando si vive all’estero.
Hai subito la frustrazione di non riuscire a realizzarti nel
settore che volevi? Ho sentito la frustrazione di non riuscire a realizzarmi nel
settore in cui volevo in Italia! Quello sicuramente. Era nel mio paese che i
miei titoli e le mie competenze avrebbero dovuto aiutarmi a realizzarmi. Quando
sono andato in Inghilterra, non mi aspettavo nulla. Ero in un paese straniero,
non conoscevo nessuno, non parlavo nemmeno la lingua del posto, cosa potevo
pretendere? Poi negli ultimi anni c’è stato un esodo spropositato in UK, dovuto
alla crisi economica globale. Ovviamente le opportunità migliori erano
riservate a chi aveva la preparazione migliore. E la preparazione offerta dalla
scuola italiana, rispetto al resto d’Europa, non è di certo ai primi posti.
Quali pregiudizi hai incontrato da parte degli inglesi? Inizialmente nessun pregiudizio in particolare, a parte quelli legati
universalmente all’essere italiani (spaghetti, pizza, mandolino, Berlusconi,
mafia, bunga-bunga erano i termini più utilizzati quando ci si presentava a
qualcuno del posto). Era il 2010. La crisi aveva appena iniziato a mietere le
sue vittime e il flusso migratorio era importante, ma contenuto in limiti
accettabili. Poi credo che quando rispetti, vieni rispettato. Quando lavori e
ti comporti da persona seria e affidabile, tutti i pregiudizi cadono. Tutte le
persone con cui ho lavorato e che ho conosciuto in maniera più approfondita,
sono sempre state molto rispettose, gentili e disponibili nei miei confronti.
Ovvio che le eccezioni ci sono ovunque e sempre.
Che rapporto hai maturato con i sudditi di Sua Maestà? Ripeto, le persone con cui ho lavorato e che ho conosciuto in maniera più
approfondita sono state sempre gentili, disponibili e rispettose nei miei
confronti, nonostante qualche difficoltà iniziale dovuta ad una mia difficoltà
comunicativa. Ma, una volta superato quell’ostacolo, quelle persone sono
diventate una famiglia. Non smetterò mai di ringraziarle. A parte loro, quando si fanno due lavori al giorno e si studia, è un po'
complicato farsi delle amicizie che non gravitino negli ambienti quotidiani.
Hai stretto amicizie con ragazzi e ragazze di altri Paesi? Se sì, quali? Si, assolutamente. La prima volta che sono arrivato in UK e ho
iniziato a frequentare la scuola, ho conosciuto ragazzi arrivati li da tutto il
mondo. Spagnoli, francesci, tedeschi, russi, indiani, coreani. Ho avuto modo di
confrontarmi con ragazzi turchi, iraniani, arabi. Sono stati rapporti che mi
hanno cambiato la vita, perché con loro ho avuto modo di confrontarmi circa
temi molto delicati come la religione, la politica, la cultura. Aspetti che solo guardandoli da vicino si possono capire, mentre molta gente è ancora
abituata a stigmatizzare per partito preso, senza essersi mai posta la minima
domanda a riguardo. I ragazzi spagnoli sono stati quelli con cui ho stretto
subito rapporti di amicizia più simili a quelli che avevo in patria.
Sicuramente per la facilità comunicativa, essendo lo spagnolo e l'italiano molto
simili, e per le affinità, culturali ed economiche che legano i cittadini del
mediterraneo. Sicuramente è stata un’esperienza di apertura al mondo che
in un paesino del sud Italia non avrei mai avuto la possibilità di vivere, con
tutte le ovvie conseguenze sul mio carattere e sulle mie idee.
Il flusso migratorio italiano verso l’estero era imponente all’epoca, il
nostro Paese aveva subito scossoni pesanti dalla crisi del 2007-2008, come
italiani eravamo quarti in quella speciale classifica che ci vedeva dietro a
polacchi, rumeni e spagnoli. Con la Brexit e le restrizioni post-covid19 la
situazione migratoria ha di certo vissuto una battuta d’arresto. Credi che il
flusso degli italiani verso l’estero e verso il Regno Unito in particolare
riprenderà come prima? Ho i miei dubbi. Prima della Brexit il Regno Unito era un
porto sicuro per tutta una serie di motivi: mercato del lavoro che offriva
molte opportunità, diritti sociali ed economici che permettevano una qualità
della vita sostenibile, un generale meltin pot di provenienze e un clima di
apertura culturale nella quale era piacevole e formativo vivere. Probabilmente
con il passare del tempo, negli ultimi anni, proprio a causa di questo flusso
migratorio sempre più accentuato, della saturazione del mercato del lavoro e
della campagna pro Brexit, le cose sono un po' cambiate. Soprattutto
quest’ultima ha dato libero sfogo a derive razziste e a comportamenti di
intolleranza a volte pericolosi. Già nel 2016, anno in cui gli inglesi hanno
votato a favore della Brexit, l’aria che si respirava era un po' diversa. Gli
sguardi erano cambiati, le parole nei confronti degli stranieri più taglienti,
i comportamenti in qualche modo più pesanti. Non ci si sentiva più ospiti, ma
immigrati. In qualche modo, un peso. È diventato più difficile arrivare in UK
per cercare lavoro. È necessaria tutta una mole di documenti per rimanerci. È diventato difficile godere di molti diritti, quindi penso che, venendo a
mancare tutta una serie di situazioni peculiari della vita nel Regno Unito,
prima di partire ora ci si debba porre un paio di domande, le cui risposte non
sono più tanto scontate: perché proprio il Regno Unito? Forse vivrei meglio in
qualche altro posto? Molti altri paesi del nord Europa offrono molto: Danimarca, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo. Le stesse Francia e Germania
stanno vivendo un periodo di ripresa economica e, magari, sono anche più vicine
logisticamente. Quindi perché intestardirsi con il Ragno
Unito? Rispettiamo la loro scelta.
Secondo te quanto la vicenda Brexit ha influito sulla scelta
del Paese (da parte dei nuovi expat) in cui ricominciare una nuova vita? Moltissimo e sicuramente continuerà a farlo. Nessuno sa quali saranno gli
sviluppi sull’economia e sulla cultura del Regno Unito, ma i primi dati non
sono molto rassicuranti. Personalmente preferirei vivere in un paese in cui i
miei diritti da cittadino europeo fossero ancora garantiti. Pensaci: se deve
essere così difficile per me entrare in un Paese e godere dei diritti più
banali come guidare un mezzo di trasporto, trovare lavoro, comprare casa,
curarmi, mandare i miei figli a scuola, farmi accettare dagli autoctoni eccetera, a questo punto forse è meglio rimanere a casa, no? A meno che a casa non ci
siano guerre civili, povertà estrema, violenze di ogni genere, allora qualunque
scelta sarebbe condivisibile. Ma questo è un altro discorso.
Oggi vivi nuovamente a Cassano delle Murge, tuo paesello d’origine, pensi
mai all’eventualità di espatriare di nuovo? E se lo facessi oggi dove
decideresti di andare? Vedo e sento molta gente compiere gesti folli, perché è
rimasta senza lavoro o perché ha perso tutto. Per espatriare ci vuole coraggio,
lasciare tutto e andare incontro a una vita nuova e sconosciuta. Però penso che
da qualche parte, nel mondo, ci sia qualcosa per ognuno di noi. Basta andarselo
a cercare. Sicuramente la prima volta è molto difficile e più si diventa grandi,
magari con la casa, i bambini, l’idea di cambiare Paese sembra quasi
impossibile. Ci vuole ancora più coraggio, sicuramente. Ma è un’opportunità.
Un’alternativa. Sono sicuro che, se mai mi dovessi trovare in difficoltà
nella mia vita, partirei di nuovo. Fatto una volta (o quattro come nel mio caso), poi
è meno complicato.
In ultimo, sembra che chi vada in Inghilterra «torni un po’
cambiato» (cit. Caparezza), vale anche per te e, se sì, quanto? Sicuramente l’esperienza mi ha cambiato profondamente. Non sarei stato la
stessa persona se non fossi partito. Cavarmela da solo in un Paese straniero,
conoscere gente di altre nazionalità, discutere di qualsiasi cosa con persone
che arrivano dall’altra parte del mondo. Consiglierei l’esperienza a tutti.
Magari, dopo il diploma, andare a vivere un anno fuori. Sicuramente molte cose
cambierebbero per la nostra società. L’aspetto che più ha avuto effetto sulla mia personalità è
stata sicuramente la enorme varietà culturale incontrata ogni giorno ovunque.
Un’esperienza molto forte per chi arriva da un piccolo paese del sud Italia, quella, secondo me, era la più grande forza del Regno Unito. Volerla limitare
o, addirittura, eliminare, è come decapitare o imbrattare un’opera d’arte. Sono sicuro che altre nazioni prenderanno quel posto e si arricchiranno di
tutti quegli aspetti che facevano grande il Regno di Sua Maestà. Mi piacerebbe fosse l’Italia a ereditare questa ricchezza, ma credo non
siamo ancora pronti per questo.