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Fabrizio De Andrè - Foto google.com |
Sono trascorsi 14 anni dalla morte di Fabrizio De André.
Lo sento. Lo avvertiamo tutti noi che lo abbiamo amato.
Noi che l’abbiamo conosciuto quando ormai non c’era più e che oggi pagheremmo
perché tornasse a raccontarci il mondo. Si definiva «un falegname di parole».
Lo era. Attraverso le sue letture solitarie, la sua passione per lo
scandagliare le realtà più nascoste, il suo incessante essere alla ricerca,
capire, spiegare, raccontare. Oggi Faber ci manca perché le sue ballate
aiutavano a capire quello che stava succedendo. Oggi a noi manca qualcuno in
grado di poterci raccontare la Storia, così come lo faceva lui. La sua è stata più volte definita la «poesia della
dolcezza», dalle prostitute ai carcerati, agli emarginati, agli umili, agli
anarchici, agli omosessuali… ci ha raccontato il suo tempo. De André non è mai stato un cacciatore di successi
miliardari o un facile consolatore di cuori innamorati. Ha trattato di
sentimenti ma senza mai cadere nello scontato, nel patetico, nel qualunquismo. Si è sempre preoccupato soprattutto del sociale, del
politico, degli altri sempre fuori dal coro. La canzone forse è la forma d’arte più diretta, quella
che non si serve di pagine, non si serve di palcoscenici, nemmeno di
pellicole… basta la melodia, bastano le parole e ha colpito dritto al cuore. De
André era un cantastorie, era un romanziere, poeta, giornalista, storico. Era
una freccia dritta al cuore. «E poi se la gente sa e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare».
Era timido
Fabrizio De André, non gli piaceva mostrarsi in pubblico, non amava farsi
applaudire, eppure amava parlare attraverso le sue ballate. Amava la sua donna, la sua campagna, la sua solitudine,
la sua chitarra e i suoi libri. La sua poetica civile è chiara nelle sue parole: «ebbi
ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari:
l’ansia per la giustizia sociale e l’illusione di poter partecipare a un
cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata, la prima rimane». Era
consapevole di non riuscire a cambiare il mondo, eppure oggi, io credo che
abbia contribuito a cambiare una generazione. Chi ha ascoltato De André, chi lo
ascolta oggi, non può farlo senza fermarsi a pensare, senza porsi delle domande. I suoi album erano dei romanzi in cui ogni pezzo
costituiva un racconto. La musica per Faber era un «tram con il quale portare in
giro le parole». Io mi auguro che quel tram non si fermi mai. Che prosegua il
suo percorso all’infinito e che continui a generare domande e dubbi in tutti
quello che ci saliranno su.
Ciao amico fragile.
19.01.2013
Carmela Marinelli