mercoledì 5 settembre 2012

Bilal – Lo schiavismo ai tempi dell’Unione Europea



Bere acqua fredda d’estate è la manna che consapevolmente sazia il nostro desiderio, la nostra necessità. La sete molti di noi, occidentali, non l’hanno mai sofferta davvero. Molti di noi non hanno mai neppure sofferto la  fame. Ma ci sono persone non lontane da noi che hanno sperimentato la sofferenza della sete e della fame. E forse qualcuno la soffre ancora oggi in Europa. Nell’Unione regionale dei Paesi Europei ci sono persone che sperimentano la sete, la fame e la violenza. La violenza dell’uomo sull’uomo. Queste persone sono gli schiavi contemporanei. Gli schiavi ai tempi dell’Unione Europea. Le rotte dei trafficanti di carne umana sono numerose, ma quelle che attraversano i deserti del Tenerè e del Sahara sono le più battute. Come ai tempi della Costa d’Oro nel ‘600 il continente africano è ritornato a vendere corpi e qualcuno è ritornano a trarne profitto. La differenza tra i traffici di schiavi di allora e quelli odierni è principalmente nei mezzi di trasporto e nella destinazione finale: il viaggio previsto è la traversata del deserto e poi la traversata del tratto di mar Mediterraneo che divide le coste nord africane da quelle italiane. E non più come nel ‘600 verso l’Atlantico stipati come merci nelle navi per approdare nel Nuovo Mondo, ma su camion nel bel mezzo del deserto per terminare il viaggio al confine di un paese in particolare, la Libia, da cui poi salpare su zattere di fortuna con la speranza di vedere e prendere parte alla vita europea con il lavoro. Dunque chi oggi trae vantaggio dai traffici sono molteplici soggetti, che vivono in mondi lontani geograficamente, ma non idealmente. L’Africa di oggi, ma anche alcuni paesi membri dell’Unione Europea come la Polonia, la Bulgaria e la Romania, offrono una qualità della vita che non è accettabile e questa situazione convince sempre più uomini e donne ad affidarsi a trafficanti senza scrupoli che si arricchiscono sulla speranza e sulla povertà. 

Sergio Gatti - Bilal
Di queste storie poco o nulla è stato scritto, ma quel poco che è stato scritto ha avuto (almeno in chi scrive) un effetto dirompente. Sergio Gatti, giornalista del settimanale “L’Espresso”, ha riflettuto su quale sarebbe stato il modo migliore per fare breccia nel muro dell’omertà della società civile europea, e italiana in particolare, e da ciò è nata l’idea di percorrere da clandestino la rotta dei clandestini. Attraversare il deserto, entrare nel centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa, per poi fingersi straniero nuovamente in terra pugliese cercando di confondersi tra i braccianti-schiavi della Capitanata. Il viaggio del giornalista è un’impresa che nessun essere umano sano di mente farebbe se non fosse per la necessità di scappare da una vita senza futuro oppure per l’improrogabile urgenza di raccontare una storia. Anzi, le storie. Le storie di quelle migliaia di uomini e donne in fuga dalla povertà più nera e dalle guerre che insanguinano l’Africa e arricchiscono politici e militari corrotti. La storia di Bilal, questo il nome del cittadino curdo "né cristiano né musulmano" entrato clandestinamente nelle maglie dello schiavismo del XXI secolo nelle cui vesti Sergio Gatti si è calato con enorme coraggio, è la storia di decine di migliaia di migranti che finiscono, ognuno a suo modo, ad ingrassare le fila degli sfruttati di casa nostra. Di tutti quegli invisibili che, come dirà un compagno del deserto a Bilal-Sergio Gatti, “colui che si vede è sicuro che esista. Ma colui che non si vede non vuol dire che sia morto”. I non morti di casa nostra, gli invisibili, sono coloro che raccolgono i pomodori che mangiamo oppure coloro che come manovali edili costruiscono case che non abiteranno mai. 

Gli invisibili di casa nostra sono invece per noi, cittadini europei liberi di circolare nello spazio Schenghen, degli intrusi, dei ruba lavoro. Per le autorità europee sono un numero da aggiungere negli elenchi dei centri di detenzione o come burocraticamente preferiscono chiamarli di “identificazione ed espulsione”, come se la sostanza cambiasse. Anzi, a pensarci rileggendo la storia di Bilal un luogo di detenzione forse sarebbe più accogliente. Un carcere ha delle regole. Un CIE no. O meglio ce le ha sulla carta, ma in pratica, come ha sperimentato Bilal-Gatti, le regole vigenti rispondono ad altre logiche. Logiche razziste che un popolo di emigranti, come lo sono stati gli italiani in passato, non dovrebbe avere nei geni. E invece le angherie hanno il colore rosso delle strisce verticali e il nero dello sfondo delle uniformi di alcuni carabinieri. Ma anche l’arroganza e la leggerezza di alcuni operatori civili del centro. La storia di Bilal-Gatti, come le storie dei tanti Bilal, tra un decreto di espulsione e una nuova traversata nel mare dell’indifferenza europea non finirà fino a quando al centro delle preoccupazioni umane non sarà tornato l’uomo. “Una delle caratteristiche dell’Africa è che lo choc del primo impatto è poca cosa rispetto allo choc del ritorno al nostro mondo delle complicazioni mentali, dei consumi e dello spreco”.

"Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini" 
autore Sergio Gatti
edito da Biblioteca Universale Rizzoli (9,60 euro)

05.09.2012
Vito Stano

Nessun commento:

Posta un commento