Il 12 luglio di dodici anni fa veniva ucciso per errore Michele Fazio. Quest'anno, come ogni anno, numerose associazioni legate e non alla rete di Libera e tanti singoli cittadini, alla presenza delle istituzioni cittadine hanno ricordato l'avvenimento.
Ma luglio è anche il mese in cui viene ricordato il sacrificio del giudice Paolo Borsellino e degli uomini e le donne della sua scorta, ucciso dal deflagrare del tritolo in via D'Amelio a Palermo il 19 luglio del 1992. Oggi a 21 anni da quell'avvenimento le ombre anziché disperdersi si sono allungate. A questo proposito copio dal sito del professor Nicola Tranfaglia, storico delle mafie, lo scritto che riporto di seguito assieme all'indirizzo web.
V.S.
di Nicola Tranfaglia
L’estate
di questo strano 2013 ha portato la prima sentenza sul 1992, anno che tutti
ricordiamo per le stragi di Capaci e di via d’Amelio e che sarà seguita
nell’autunno con ogni probabilità dal processo centrale sulle trattative
tra mafia e Stato che vede alla sbarra (o comunque imputati) accanto ai capi
mafia detenuti (tra i quali Riina, Brusca e Bagarella), due politici importanti
come l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, l’ex ministro per il
Mezzogiorno Calogero Mancino e gli ufficiali del Ros Carabinieri Mori e
Obinu assolti ieri perché il fatto non sussiste. Ossia perché la mancata
cattura del boss Bernardo Provenzano nel giugno 2006 a Mezzojuso è
avvenuta senza che ci fosse da parte loro un dolo, cioè la commissione di un
reato di favoreggiamento nei confronti del capomafia latitante.
Non è la prima
sentenza del genere nei confronti di Mori che venne assolto all’indomani della
cattura di Salvatore Riina quando fu imputato di analogo reato per la mancata
perquisizione del covo del boss, ordinato dalla procura palermitana
subito dopo l’arresto avvenuto a Palermo il 15 gennaio 1993. Anche qui i
giudici si trovavano di fronte a un fatto sicuramente avvenuto e imputato
proprio al Ros dei Carabinieri (in particolare a Mori e a De Caprio, il mitico
comandante Ultimo) competenti per l’azione da compiere e decisero di
assolvere gli imputati. La sentenza di Palermo dichiara con ciò inattendibili
la testimonianza del colonnello Riccio dei Carabinieri di Palermo e del pentito
Massimo Ilardo assassinato a sua volta nel 1996 dai mafiosi siciliani e
non spiega chi siano i colpevoli di quella mancata cattura come della mancata
perquisizione di tre anni prima. Insomma aumentano le tenebre che
sicuramente alcuni uomini e alcuni pezzi dello Stato e della politica hanno
interesse a mantenere sulle trattative del '92-93. Perché è difficile, per non
dire impossibile, che quelle trattative non ci siano state.
Ricordo io stesso
di aver scritto più di un editoriale nella seconda metà degli anni
novanta sull’Unità diretto allora da Concita de Gregorio che
dicevano apertamente come le trattative ci fossero state e lo dimostrava la
revoca di oltre trecento misure di 41 bis da parte del ministero in carica
allora. Ma a mano a mano che gli anni sono passati e le associazioni mafiose – piuttosto che afflosciarsi e diventare più deboli, sono diventate invece più
forti e prospere, con il ritorno della destra al potere e poi del governo
tecnico – quelle trattative sono diventate sempre più difficili da accettare da
parte delle nostre classi dirigenti. Così oggi mentre il nostro parlamento
sembra avere qualche difficoltà a istituire una nuova commissione di inchiesta
sulle mafie, come pure chiedono tutte le associazioni culturali che si occupano
di questi problemi (a cominciare dall’associazione 'Pio La Torre' che ha
scritto in questi giorni ai presidenti delle Camere per sollecitare
l’iniziativa), incominciano a diffondersi anche nelle aule giudiziarie i dubbi
sul recente passato e su quelle trattative proprio mentre tutto quello che
succede oggi in Italia e nel mondo dovrebbe condurci a guardare con grande
attenzione alle pagine oscure ma significative del rapporto tra mafia e
politica.
Ma la giornata di oggi diciannove luglio 2013 è dedicata alla memoria
di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta che morirono con lui in
quell’assolato pomeriggio palermitano di fronte alla casa di sua madre in via
D’Amelio per una bomba di centinaia di chili di tritolo di cui fu imbottita
l’auto centoventisei Fiat posta di fronte all’abitazione cui il giudice
siciliano era diretto. Le interviste che tre giornali (Il Corriere della Sera, l’Unità e Il fatto quotidiano hanno fatto rispettivamente al
procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, all’ex senatore Giuseppe Lumia
e al procuratore di Palermo Sergio Lari) non hanno aggiunto notizie
importanti al complesso dei fatti che sono oggetto del processo in corso
sulla trattativa tra mafia e Stato né alla spiegazione delle ragioni che hanno
condotto ieri i giudici di Palermo ad assolvere gli ufficiali dei carabinieri
Mori e Obinu.
L’unico grande quotidiano che ha dimenticato del tutto
l’avvenimento è –mi dispiace doverlo ricordare – la
Repubblica di Ezio
Mauro, occupata a tempo pieno a celebrare il governo delle «larghe intese»
Pd-Pdl di Enrico Letta, sostenuto a corpo morto dal presidente della
repubblica, Giorgio Napolitano. La verità dei fatti, per chi si è dedicato con
i suoi studi al fenomeno mafioso, è che ancora grandi ombre pesano sui rapporti
tra mafia e politica nella storia d’Italia. Non nel senso che quei rapporti non
ci siano stati, o che non abbiano riguardato problemi importanti del nostro
passato come, con ogni probabilità, del nostro presente ma piuttosto nel
senso che non siano stati così importanti e decisivi da condurre a modificare
comportamenti rilevanti degli organi istituzionali, politici o giurisdizionali,
e favorire la battaglia delle associazioni mafiose da sempre attive nella
conquista di un potere sempre maggiore nella nostra società.
C’è una difficoltà
da superare che giudici come Falcone e Borsellino siano stati
eliminati perché percepiti come ostacoli in una guerra senza quartiere
contro Cosa Nostra, che altri giudici (come Livatino, Scopelliti, Saitta
o Terranova e Bruno Caccia a Torino) o ancora politici (penso a Pier Santi
Mattarelli) siano stati uccisi per le stesse ragioni e che, a distanza di venti
o più anni dai fatti sicari o mandanti di quegli omicidi, siano ancora a tutti
gli effetti impuniti. E ancora per chi scrive è difficile ammettere, come
scrive l’illustre prof. Fiandaca, che trattare con Cosa Nostra sia dal punto di
vista del diritto penale indifferente o addirittura lecito. Non è espressione
di una visione «politi cistica» o, come scrive Fiandaca «sostanzialistica»,
sostenere che una trattativa mafia-stato sia un aspetto indubbio del rapporto
tra lo stato di diritto che regge la nostra costituzione democratica e le
associazioni mafiose e che esprime la malattia di fondo che affligge la nostra
repubblica.
Sono ancora convinto, come scrivono magistrati del passato
come Falcone e del presente come Caselli, che trattare con la mafia significa
accantonare la lotta contro di essa, cercare una composizione con le sue
pratiche, la coabitazione con i suoi metodi, in altre parole accettarne le
regole di fondo.