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domenica 18 novembre 2012
L'altoforno di Daniele Di Maglie - Taranto raccontata da un esule
Copertina "L'altoforno" - Foto google.com |
Taranto città greca o meglio spartana (Fulvio Colucci) mai rassegnata a essere compresa in una storia altrui o in un territorio che non fosse suo. Taranto non è in Puglia, ma a Taranto (Daniele Di Maglie). Il sifone, ovvero il camino sputa fuoco della fabbrica d'acciaio, dipinge il cielo dell'antica colonia, fondata secondo la mitologia da Taras figlio di Poseidone e della ninfa Satyria (Wikipedia), di sfumature rosse come fosse il sangue che i tarantini donano al vampiro, la fabbrica.
Gli elementi del racconto jonico-industriale contemporaneo narrano di malattie incurabili e ricatto occupazionale, del baratto salute-salario al quale migliaia di persone scelgono di sottomettersi o al quale decidono di sottrarsi, di essere esuli. L'esule, generalmente è colui che fugge dal Paese natio per trovare rifugio in terre accoglienti vicine e lontane. Il passato ha raccontato di esuli di guerra, il presente racconta di esuli ambientali: costoro migrano da territori martoriati e calamità naturali altrove per ritrovare la dignità quotidiana in un paese che avrà sempre il sapore della terra straniera. Questa figura, poco mitologica, non appartiene soltanto ai Paesi e ai popoli dell'emisfero Sud, ma anche a realtà postindustriali della metà ricca e tecnologicamente progredita del pianeta.
Taranto, feticcio industriale in un continente postindustriale, è terra di esuli. Esuli ambientali, migranti della salute, cioè persone che all'ombra del "mostro" hanno speso gli anni della giovinezza e che prima dell'estrema unzione, figlia legittima della rassegnazione, hanno scelto di lasciare, abbandonando il solco segnato, per percorrere altre vie non meno difficili. Daniele Di Maglie da ragazzino faceva il bagno nella conca di eternit come fosse una piscina e non capiva perché il fratello maggiore tornava dall'altoforno nervoso (D. Di Maglie). Daniele Di Maglie cantautore in esilio nella città metropolitana della Puglia di domani, racconta nel libro, edito dalla Stilo Editrice, "L'altoforno" e la città jonica attraverso due racconti "Sisifo Re" e "Mala estate", attraverso i quali narra la resistenza del dissidente Sisifo e le aspirazioni di un giovane tra ambizione e disincanto. Mito e realtà nelle parole per narrare un luogo e un popolo sempre in bilico tra mitologia e realtà, tra passato e presente.
"La sonnolenta Taranto", così recitava la cronaca dell'espianto degli ulivi millenari nella sconfinata campagna tarantina parallela all'acquedotto medievale, che oggi si specchia nella ruggine ferrosa della fabbrica. Il vuoto delle piante simbolo di "povertà e arretratezza" fu colmato fin nelle viscere dal calcestruzzo e dall'acciaio, icone di un presente che il Mezzogiorno rurale del dopoguerra non aveva ancora conosciuto.
https://www.youtube.com/watch?v=2Z69OEwj8c4
https://www.youtube.com/watch?v=2Z69OEwj8c4
Rivedere e riascoltare oggi alla luce degli ultimi eventi la narrazione della morte della campagna e la contestuale creazione della fabbrica, la cui enfasi da Ventennio è stata ricordata dal giornalista Fulvio Colucci in occasione della presentazione del volume "L'altoforno" presso la libreria Zaum di Bari, causa spaesamento. Forse nostalgia in coloro che quel paesaggio lo vivevano, ma per coloro - compreso chi scrive - quelle immagini di stravolgimento epocale e quel tono di abissina memoria provoca tristezza, una tristezza tanto inattesa quanto fisiologica per qualcosa di grande e di bello che non c'è più.
18.11.2012
Vito Stano
sabato 17 novembre 2012
"Sarebbe meglio non interrompere del tutto la produzione all'Ilva, perché altrimenti si chiude": parla Paolo Mele operaio Italsider in pensione
Operaio all'altoforno - Foto google.com |
La notizia pubblicata soltanto qualche giorno fa con cui la dirigenza dell’Ilva ha deciso di chiedere la cassa integrazione per 2mila operai dell’area a freddo dello stabilimento di Taranto pone adesso il problema dell’occupazione. A questa si aggiunge la notizia appresa nella giornata di ieri dell'annuncio del presidente del gruppo Ilva Bruno Ferrante, il quale ha comunicato ai giudici impegnati sul caso la gravità della situazione economica e le perdite che l'azienda starebbe subendo a causa del blocco delle navi nel porto di Taranto, navi che trasportano le materie necessarie alla produzione. Allora il dilemma salute o lavoro come si risolve? Dopo le parole dure del segretario nazionale di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, raccolte in un’intervista realizzata dal sottoscritto soltanto qualche giorno fa, prosegue lo Speciale Taranto con un tuffo nei ricordi di un operaio dell’Italsider, che per chi non lo sapesse era il nome dell’azienda a partecipazione statale che produceva acciaio a Taranto e che l’Iri (con Romano Prodi presidente) ha svenduto al gruppo Riva. Paolo Mele, operaio metalmeccanico di Cassano delle Murge, ha lavorato all’Italsider di Taranto dal 1972 al 2002, anno in cui è andato in pensione godendo di dieci anni di abbuono per aver lavorato a contatto con l’amianto.
A cura di Vito Stano
Il gruppo Riva ha acquistato l’azienda nel 1995, tu, che ci lavoravi da più di vent’anni, hai vissuto il prima e il dopo. Cosa è cambiato nel modo di lavorare e vivere gli spazi aziendali?
Per esempio le riunioni sulla sicurezza non si sono più fatte (dopo l’acquisto da parte dei Riva, ndr); si pensava solo al profitto, noi eravamo soltanto un numero.
Mi pare di comprendere da quello che dici che la situazione all’interno dell’azienda è peggiorata negli anni.
Sì, è chiaramente peggiorata.
Invece per quanto riguarda il rischio di scoprirsi affetti da malattie degenerative, voi operai eravate al corrente dei rischi? E come l’Italsider cercava di tutelare la vostra salute?
Si faceva molta manutenzione sugli impianti, che venivano fermati per effettuare le pulizie e quindi l’inquinamento era minore. Poi è venuto il signor Riva e gli impianti non si fermavano più: andavano avanti finché non prendevano fuoco, una gru se non prendeva fuoco non si fermava. Capitava che da fare gli elettricisti si finiva a fare i pompieri. Quando pioveva i capannoni si allagavano, perché nell’era Riva non si facevano più le coperture nuove, quindi si allagavano gli impianti elettrici e a volte capitava di dover mettere il teflon sulle apparecchiature elettriche rischiando danni alla salute.
In che reparto lavoravi? E cosa facevi?
Nell’acciaieria uno dove si faceva l’acciaio (in uno dei reparti cosiddetti a caldo, ndr). Qui c’erano i convertitori, che sono dei grossi forni per fare l’acciaio. Io lavoravo lì dove recentemente dai camini usciva molto, troppo fumo. Io ho lavorato là fino al quarto piano e non era così: c’era il fumo, ma non così perché funzionavano gli impianti di depurazione, per cui quel fumo diventava fango, che tramite dei tubi arrivava alla palazzina fanghi dove veniva separato dall’acqua.
Questo cosa può significare che non è stata fatta la manutenzione?
Significa che negli anni Riva non ha fatto la manutenzione e gli impianti sono via via deperiti. Però, mi pare che dopo le pressioni del presidente della regione Puglia Nichi Vendola qualcosa è stato fatto per rientrare nei parametri dettati dell’Unione Europea.
Invece per quanto riguarda le malattie degenerative, nel tuo trentennio di lavoro all’Ilva hai sentito di casi di tumori? Si sapeva del rischio?
Sì che si prendevano; quando sono arrivato io mi è capitato di vedere operai più anziani di me ammalarsi. C’è da dire che ai tempi dell’Italsider noi operai andavamo ogni anno all’ospedale nord di Brindisi a fare i controlli, ma già ai tempi in cui lo Stato era proprietario dello stabilimento è capitato che non andavamo più all’ospedale ma nell’infermeria dello stabilimento e qua si coprivano alcune cose.
Tu hai lavorato per trent’anni e sei in pensione da dieci, ti senti fortunato?
Per prima cosa se penso ai pericoli affrontati è tanto che sono uscito vivo, perché sapevi che entravi e non sapevi se uscivi. Chiaramente qualche acciacco ce l’ho.
Quale, se vuoi dirlo?
Per esempio ho qualche problema di udito.
Ed è dovuto al lavoro?
Sì, perché i rumori erano molto forti. Mi fischiano ancora le orecchie.
Cosa pensi dei giovani operai che vogliono lavorare nella fabbrica, alla luce di quello che oggi si sa?
Chiaramente gli operai sono sotto ricatto, devono lavorare in quelle condizioni perché possono essere licenziati. In passato capitava che ovunque li mandassero (nello stabilimento, ndr) loro andavano e lavoravano con o senza sicurezza. Noi anziani spiegavamo loro dove c’era il pericolo.
Facevate da guida ai più giovani.
Sì, perché noi andavamo a renderci conto del lavoro e anche delle condizioni di sicurezza e si poteva non fare il lavoro a causa delle condizioni pericolose dell’impianto. Invece i giovani dovevano andare senza dire niente, perché rischiavano di essere licenziati dopo i due anni.
Com’era la situazione sindacale nello stabilimento Italsider?
Il sindacato è stato forte finché c’è stata l‘unità sindacale, quando c’era la federazione nazionale metalmeccanici. Negli anni del governo Craxi l’unione dei metalmeccanici si è rotta e da allora gli operai a Taranto e nel resto d’Italia hanno iniziato a prendere le batoste.
Dunque la disunione dei sindacati ha causato l’indebolimento della classe operaia mettendola sempre più sotto ricatto. E i sindacalisti cosa facevano?
Essendo divisi, ogni sindacato curava le sue clientele.
Anche il giovane operaio che ho intervistato prima di te ha detto che i sindacati (specialmente Cisl e Uil) fanno clientelismo ancora oggi. Era così già ai tuoi tempi?
Ripeto, uniti si facevano valere. Da soli…
Quindi la situazione attuale cosa ti fa pensare?
Chiaramente il lavoro è importante, senza lavoro non si può mettere su famiglia e non c’è sviluppo. Tra l’altro bisogna fare l’acciaio perché è importante anche per lo Stato, che facciamo importiamo l’acciaio dall’estero?
Quindi che fare?
Penso che gli impianti bisogna rinnovarli, bisogna far uscire i soldi al padrone, perché quello stabilimento gli è stato venduto a pochi soldi. Nel frattempo ha fatto tanti soldi e quindi…
Quindi tu sei d’accordo con lo stop degli stabilimenti e con l’impiego degli operai nella riqualificazione?
Secondo me sarebbe meglio interrompere non completamente la produzione, perché altrimenti si chiude. Per avviare un impianto poi fermo ci vogliono dei tempi lunghi.
E le responsabilità dei politici?
C’è stata complicità di molti politici con l’azienda, specialmente ai tempi del sindaco Cito e poi della Di Bello. Basta pensare al quartiere Tamburi o a Statte, chi ha dato i permessi di costruire? Io mi sono salvato anche perché facevo il pendolare.
venerdì 16 novembre 2012
"Il ministro dell’Ambiente Clini dovrebbe andare a casa, perché la vicenda dell’Ilva è scandalosa. Clini ha nei fatti coperto l’Ilva per mesi. I Riva devono usare i profitti che hanno fatto negli anni scorsi per applicare tutte le tecnologie che servono": Paolo Ferrero intervistato sul caso Ilva-Taranto non risparmia nessuno
Il viaggio ideale che abbiamo iniziato nella città di Taranto, la città più inquinata d'Europa (Carlo Vulpio) prosegue e dopo aver parlato di "Invisibili", libro scritto a due mani dal giornalista dell'edizione tarantina de La Gazzetta del Mezzogiorno Fulvio Colucci e l'operaio e scrittore Giuse Alemanno; dopo aver parlato con un operaio dell'Ilva; dopo aver parlato con Vito Galiano, sindacalista Cgil ed esperto di malattie degenerative legate agli ambienti di lavoro; dopo aver raccolto le dichiarazioni del ministro dell'Ambiente Corrado Clini; continua con le dichiarazioni del già ministro e segretario del Partito della Rifondazione Comunista Paolo Ferrero venuto a Bari il 14 novembre scorso per presentare i quesiti referendari e discutere del futuro politico-elettorale con la base e con i movimenti espressione della società.
A
cura di Vito Stano
Paolo Ferrero, segretario Partito della Rifondazione Comunista Foto Archivio Vito Stano |
Segretario l’Ilva ha annunciato la
decisione di chiedere da lunedì 19 novembre la cassa integrazione per 2mila
operai degli stabilimenti di Taranto. Si parte col piede sbagliato?
L’Ilva
non vuole spendere i soldi per fare quello che dovrebbe fare, cioè la
riconversione ambientale del ciclo (di produzione, ndr), mettere in sicurezza
le cose, coprire quello che c’è da coprire e mettere le tecnologie che servono.
L’Ilva sta ricattando i lavoratori perché cerca di non tirare fuori i soldi,
noi diciamo che lì all’Ilva c’è una cosa molto semplice da fare: l’azienda deve
usare i profitti che ha fatto negli anni scorsi per applicare tutte le
tecnologie che servono e fare tutti i lavori che servono per evitare che quello
stabilimento continui ad inquinare il territorio e ad ammazzare la gente che ci
lavora, questo è quanto. Di acciaierie c’è ne sono ovunque e del resto
l’acciaio serve. Quindi l’acciaio va prodotto senza riempire di diossina il
territorio.
Il ministro dell’Ambiente
Corrado Clini e il ministro della Salute Renato Balduzzi sembravano sorpresi del contenuto del “Rapporto Sentieri”, quasi fosse la prima volta che certi dati venissero
pubblicati. Lei crede che per certi errori madornali dovrebbero lasciare
l’incarico che ricoprono?
Spero
che siano degli errori, perché è evidente che il ministro dell’Ambiente (Clini,
ndr) ha nei fatti coperto l’Ilva per mesi, addirittura credo abbia denunciato
chi tirava fuori i dati, che poi si sono rivelati essere i dati veri. Che
l’Ilva inquinasse lo sapeva tutto l’universo e lo sapeva quindi anche il
ministro dell’Ambiente. Il problema è che questo governo è effettivamente
espressione dei poteri forti, quindi non tocca le banche, non tocca le imprese,
non tocca le grandi multinazionali e difende i loro interessi invece che la
popolazione.
Quindi che fare?
Io
penso che questo governo se ne dovrebbe andare e nello specifico il ministro
dell’Ambiente dovrebbe andare a casa, perché la vicenda dell’Ilva è scandalosa.
Il punto però è che l’Ilva è stata tollerata da troppi nel fare i suoi porci
comodi, perché non è da oggi che l’Ilva inquina è da anni e in questi anni eravamo
pochissimi a denunciare i superprofitti dell’Ilva che da un lato sfruttava i
lavoratori e dall’altro inquinava l’ambiente. Quindi c’è una responsabilità di
questo governo perché ha negato l’evidenza, non è intervenuto quando avrebbe
dovuto. Ma il problema più generale è che bisogna cambiare l’orientamento
politico del governo e del parlamento nei confronti delle grandi imprese; non
si può continuare a tollerare qualsiasi cosa succeda.
giovedì 1 novembre 2012
"Adesso è il momento di lottare per salvare i posti di lavoro, in quanto la questione dell’inquinamento è stata accertata e su questo punto non si torna indietro. Ora è il momento che l’Ilva e lo Stato paghino per la bonifica e la ristrutturazione degli impianti": parla Vito Galiano, Cgil
a cura di Vito Stano
Taranto - Foto google.com |
“Ho
sempre sostenuto che il sindacato sbagliava, perché, anziché tutelare la salute
del lavoratore, tutelava il posto di lavoro. Il sindacato deve dire al
lavoratore che in condizioni di rischio per la salute non si può lavorare,
perché ci si ammala e si muore”.
Con questo pensiero di Vito Galiano,
sindacalista della Cgil esperto di questioni legate a malattie degenerative,
riprendiamo lo Speciale Taranto che abbiamo intrapreso su questo blog.
Quindi cosa avrebbe detto o
fatto se fosse stato delegato di fabbrica all’Ilva?
Prima
di tutto avrei proposto di spegnere tutto, perché oltre alla fabbrica e ai suoi
operai stiamo inquinando la città e chiaramente non da oggi, ma da dieci anni
fa. Difatti gli errori del sindacato partono da allora, quando lo Stato ha
venduto l’Italsider alla famiglia Riva. Già da allora andava fatto il lavoro
di ristrutturazione, prima che l’Ilva cominciasse a produrre. L’Ilva doveva,
dopo l’acquisto, mettere in sicurezza la fabbrica e rendere gli impianti idonei
alla produzione; invece la produzione non si è fermata un attimo, tenendo
presente che il parco macchinari era già obsoleto. Pertanto visto che la
situazione attuale è praticamente la stessa di dieci-quindici anni fa, oggi
l’unica strada percorribile è bloccare tutto, altrimenti non si potrà abbattere
l’inquinamento.
Quindi il sindacato deve tutelare
la salute o il posto di lavoro?
L’operaio non vuole perdere il posto di lavoro, ma il sindacato deve
tutelare la sua salute. Dunque lo Stato deve intervenire per obbligare la
famiglia Riva a sottoscrivere un accordo con cui si dovrà prevedere la cassa
integrazione per i lavoratori, di cui i lavoratori hanno sempre avuto paura. Su
questo punto dobbiamo tenere presente che l’istituto della cassa integrazione è
nato per permettere al lavoratore di ovviare al salario al momento della ristrutturazione
dell’azienda, che è naturale che prima o poi venga attuata.
Ma qualcuno dice che ci
vogliono tre anni…
Secondo
le informazioni di cui dispongo non ci vogliono tre anni, ma meno
di due anni. Lo Stato deve provvedere alla cassa integrazione dei
lavoratori per due anni e imporre all’Ilva di ristrutturare e successivamente
di riprendere la produzione nello stabilimento di Taranto. Il risanamento degli
impianti è fondamentale per salvare i posti di lavoro e per salvare la città
dall’inquinamento.
Quindi questa operazione
“pulizia” è possibile?
Sì,
questa operazione si può fare e questo io l’ho sempre sostenuto. L’alternativa qual è, continuare a tenere accesi gli altiforni continuando a uccidere i bambini? Lo
Stato ha ordinato ai genitori dei bambini di Statte e del quartiere Tamburi di
non fare giocare i bambini nei parchi perché il terreno è pieno di agenti
inquinanti. Come si può vivere in queste condizioni? Per non parlare dei
bambini nei passeggini… Nel giro di dieci-quindici anni la popolazione di
Taranto, se non si spegne la fabbrica, sarà ammalata di tumore. Stante
alla situazione attuale, il picco delle morti direttamente riconducibili alle
cause dell’inquinamento si raggiungerà appunto tra dieci-quindici anni.
Allora da dove si dovrebbe
iniziare? E chi dovrebbe iniziare a fare qualcosa?
Gli
errori commessi sono gravi, andiamo per grado. L’azienda sanitaria ha il dovere
di fare le ispezioni quando si ricevono delle segnalazioni. Detto ciò gli ambientalisti
denunciano questa situazione da una vita e da sempre vengono additati come allarmisti.
Chi si è opposto agli
ambientalisti?
Dapprima
il governo Berlusconi e in particolare il ministro del Turismo dell’epoca
Michela Brambilla, ma soprattutto il sindacato. A Taranto in estate stava
scoppiando la guerra civile: da una parte manifestazioni degli operai con Cisl e Uil contro
la magistratura e dall'altra la Fiom Cgil invece non ho scioperato
contro le decisioni assunte dalla magistratura, ma ha fatto
solo questo e qui Landini (segretario nazionale Fiom-Cgil, Ndr) mi ha deluso.
Solo l’azione giudiziaria
tiene la barra dritta.
Dopo
le alterne vicende di questi mesi la magistratura in sostanza non ha fatto
retromarcia: la decisione è rimasta quella di mantenere il sequestro sugli
impianti senza farli fermare e di far iniziare i lavori di bonifica.
Lavori di
bonifica che però non partono...
I parchi minerali dovevano essere coperti, ma da
luglio a oggi nulla ancora è stato fatto. Riva se ne frega, perché non vuol
scucire soldi suoi e aspetta che lo faccia lo Stato!
Parliamo di
responsabilità.
La
responsabilità deve essere assunta da diversi soggetti istituzionali: in primis dal Servizio Sanitario
Nazionale, perché non deve essere la magistratura ad imporre il sequestro
degli impianti e la successiva bonifica, ma il Servizio Sanitario Nazionale e il fatto che nulla sia stato fatto è indicativo di colpe che devono essere riconosciute.
Vien da pensare che il Servizio Sanitario Nazionale abbia dei motivi per non intervenire. Quali non è dato saperlo. Nessuno dice nulla, ma i colpevoli meritano di
essere arrestati e quella è la fine che faranno. Con la presentazione del
“Rapporto Sentieri” si chiude il discorso, sfido
chiunque adesso a dire cose senza senso.
E il ministro dell’Ambiente
Corrado Clini?
Dovrebbe
dimettersi, come giustamente stanno chiedendo i Verdi, perché oltre a dire il
falso, Clini ha detto cose che un ministro non deve dire. Peraltro quando c’è
stato l’incontro ad agosto era assente il ministro della Salute Renato Balduzzi,
perché se interpellato avrebbe dovuto dare i dati e allora la verità non
avrebbe più potuto essere occultata e infatti qualche giorno fa è avvenuto
proprio questo.
E cosa mi dice del Registro Tumori?
Mentre diversi soggetti si accapigliavano sui dati e il ministro Balduzzi
presentava il “Rapporto Sentieri” molti hanno dimenticato che in Puglia è stato
istituito con legge regionale del 2007 il Registro Tumori, che è un organismo
creato appositamente per verificare le cause dell’aumento di casi di tumore sul
territorio regionale. Il lavoro di questo organismo è di fare monitoraggio
costante e, come nel caso di Taranto, qualora i dati registrano percentuali
allarmanti deve intervenire, perché la struttura è composta da un primario
medico e un equipe di dipendenti regolarmente
stipendiati. Se il Registro Tumori non interviene viene meno la sua stessa
natura di organismo di controllo e raccolta dati.
In pratica come funziona il
Registro Tumori?
Ogni
ospedale della Puglia deve comunicare i dati, che confluiscono presso l’ufficio
preposto sito nella struttura dell’ospedale oncologico di Bari.
Il Registro Tumori ha funzionato o no?
Questo è da accertare. Ma c’è anche da dire che se la Regione non
interviene sull’Asl, quest'ultima viene meno ai propri doveri. La catena istituzionale è evidente.
Il sindaco di Taranto per esempio, il quale è il massimo responsabile del Servizio
Sanitario Nazionale in città, doveva chiedere subito i dati, perché non l’ha
fatto? E poi ritorniamo alle responsabilità del Ministero, che deve intervenire
perché, così come alcuni specialisti sanitari interpellati sul caso Taranto hanno affermato, “la
situazione a Taranto è sconvolgente: si tratta di una emergenza sanitaria senza
precedente che va affrontata con urgenza senza alcun tentennamento”.
Quindi cosa dovrebbe fare il
sindacato?
Prima
che tutto chiuda Cgil, Cisl e Uil si dovrebbero riunire e dovrebbero convincere
il Governo a costringere i Riva a sottoscrivere un accordo, che preveda la
cassa integrazione per i dipendenti e il ripristino delle condizioni lavorative
adeguate.
Quindi in sostanza lei dice
che i Riva devono provvedere alla bonifica per far riprendere la produzione
dell’acciaio a Taranto?
Sì,
a Taranto si deve riprendere la produzione dell’acciaio, perché le nuove
tecnologie, in uso per esempio in Svezia, permettono di produrre senza
inquinare l’ambiente. Adesso è il
momento di lottare per salvare i posti di lavoro, in quanto la questione
dell’inquinamento è stata accertata e su questo punto non si torna indietro.
Ora è il momento che l’Ilva e lo Stato
paghino per la bonifica e la ristrutturazione degli impianti. E a questo
punto anche gli operai devono prendere coscienza che è assolutamente necessario
spegnere e accettare la cassa integrazione, perché è ormai accertato che si
muore non solo dentro ma anche fuori la fabbrica. Questa tragedia è molto più
grave della situazione che dell'Eternit di Casale Monferrato o dell’Enichem di Brindisi, una tragedia
così non si è mai vista nel mondo del lavoro. La differenza tra la tragedia
dell’amianto di Casale Monferrato e l’inquinamento industriale di Taranto è che
gli operai che lavoravano nella fabbrica e i cittadini si unirono nella lotta
per chiudere la fabbrica, mentre a Taranto gli operai e la popolazione si
stanno scontrando tra loro con il rischio di una guerra civile. A Taranto da
una parte ci sono gli operai appoggiati dal sindacato che difendono il posto di
lavoro e dall’altra parte la popolazione di Taranto appoggiata da comitati cittadini
che difendono la salute e l'ambiente.
Cosa hanno in comune Casale
Monferrato e Taranto?
Ciò
che le accomuna è che entrambe le città sono state sacrificate sull’altare dei
vantaggi economici del grande capitale industriale, il quale tra i propri
vantaggi economici e la tutela della salute e dell’ambiente persegue sempre i primi. Questa è la realtà. E aggiungo che i grandi
capitalisti sono convinti che portare qualche migliaio di posti di lavoro li
autorizza ad uccidere persone e ambiente. Questo è quello che è successo a
Taranto. Mentre gli operai vanno a lavorare in condizioni così elevate di
rischio per la salute non si rendono conto che stanno contribuendo a far
ammalare i loro figli.
Quindi la sua critica è
forte nei confronti della Cgil?
La
mia critica è nei confronti dei sindacati confederali, perché non hanno aperto
vertenze su questo punto. Il sindacato non ha protetto il lavoratore.
E la catena alimentare?
Siamo
arrivati a chiudere il Mar Piccolo (il primo seno, Ndr) perché le cozze sono
risultate piene di diossina, oltre ad abbattere centinaia di pecore. Allora
com’è possibile ancora oggi chiedersi, come ha fatto il ministro della Salute Renato
Balduzzi, se i tumori sono causati dalla catena alimentare! È certo che la
catena alimentare è viziata da agenti inquinanti, altrimenti perché uccidere tutte
quelle pecore e tutte quelle tonnellate di mitili?
E la Regione Puglia?
Anche
il presidente Vendola dovrà assumersi le sue responsabilità, altro che
abbracciarsi con l’ex ministro Fitto quando il Governo Monti ha dichiarato di
stanziare 140 milioni di euro per la bonifica. Intanto l’Ilva non ha stanziato un centesimo... Dobbiamo ricordarci che per la bonifica di Porto Marghera furono stanziati 5
miliardi, mi pare che ci sia una bella differenza. Vale di più la laguna di
Venezia rispetto al Mar Piccolo?
venerdì 26 ottobre 2012
"La magistratura ha fatto la cosa giusta, ma la produzione non può fermarsi": parla un operaio dell'Ilva
Intervista a cura di Vito Stano
Il rapporto “Sentieri”
presentato a Taranto dal ministro della Salute Renato Balduzzi è stato un momento
di svolta, i dati ivi contenuti hanno raccontato una realtà inconfutabile:
percentuali altissime di casi di tumore e la particolarità di questa strage
silenziosa è che a subire il maggior danno sono le donne. Adesso nessuno può più
insistere col muro contro muro. I danni ci sono e nessuno può più pensare di
smentirli. Dalla decisione della magistratura di sequestrare gli impianti a
caldo della “fabbrica” le cose sono irreversibilmente cambiate; ad oggi operai
e ambientalisti, per quanto attestati su posizioni diverse, sono comunque più
vicini. Addirittura molti operai riconoscono le ragioni degli ambientalisti e
dei comitati tarantini per la salute. Di questo cambio di rotta ne abbiamo
parlato con un operaio dell’Ilva, il quale per ragioni di tutela ha preferito
restare anonimo.
Come
stai vivendo questi giorni convulsi? Non hai paura delle probabili conseguenze
sulla salute non solo degli operai, ma anche di molti cittadini ignari
residenti a Taranto?
Sicuramente questa
situazione la vivo con apprensione. La magistratura sta facendo bene, perché
questi problemi ci sono da tanto tempo. Comunque noi lavoriamo come sempre,
perché ci teniamo al nostro lavoro e lo facciamo con piacere. E anche perché
ogni dodici del mese ci arriva lo stipendio. È una sicurezza. Con tutto questo
clamore, ci siamo chiesti se lo stipendio sarebbe comunque arrivato puntuale.
Ed
è stato così?
Sì.
Avete
avuto paura che l’azienda facesse una sorta di ritorsione sul salario?
Sì, però così non è stato.
Tutto è stato nella norma.
Cosa
pensavate voi operai prima che questa situazione esplodesse?
Personalmente non ci pensavo
per niente. Si vive così alla giornata. Non pensando a ciò che l’Ilva causa. Perché
nessuno ce l’aveva messo in testa, non se n’è mai parlato.
Quindi
c’era un vuoto da questo punto di vista andavate a lavorare senza preoccuparvi
di nulla?
Sì nessuno ce ne ha mai
parlato, neanche il sindacato. Questa è stata una pecca, perché il sindacato
non ha detto nulla?
Perché?
Sono corrotti. È evidente
che sono corrotti.
Questa
situazione come ha inciso sui rapporti all’interno della fabbrica?
Sicuramente all’interno
siamo più vicini. Prima se veniva il tuo capo reparto e ti diceva di fare
qualcosa non potevi rifiutare, altrimenti venivi trasferito da un’altra parte.
Adesso le cose sono cambiate, ci pensano di più, prima di fare qualcosa del
genere. Io parlo di questi episodi perché a livello ambientale la mia
situazione non è difficile.
In
quale reparto lavori?
Io lavoro al Pla, cioè
produzione lamiere. Dove fanno la lamiere che vanno al tubificio. L’area a
caldo, composta da acciaieria, altoforni, cokerie e parchi minerali, è quella
dove si concentrano i problemi ambientali più importanti.
Quindi
gli ambientalisti non avevano torto? Le posizioni degli operai e dei comitati
cittadini sono oggi più vicine?
Ritengo che gli
ambientalisti hanno ragione. Quindi per noi operai, ma questo vale anche a
livello di dirigenti, capi reparto e ingegneri, l’azienda si deve attivare per
proteggerci, per farci lavorare bene senza correre il rischio che tra dieci
anni… Purtroppo ho già vissuto situazioni di lutti di colleghi che sono morti
di tumore o d’infarto sul posto di lavoro o a casa. Sabato scorso un collega è
morto d’infarto, a casa però.
E
la causa è da ricercarla nel tipo di lavoro che faceva?
Forse sì. Forse sarà stato
causato dallo stress dei turni, credo.
Dove
lavorava?
Nello stesso reparto in cui
lavoro io, alla produzione lamiere, su un carro ponte.
È
un lavoro pesante?
Sicuramente è un lavoro di
responsabilità, perché sotto di te lavorano altri operai. Devi tenere gli occhi
aperti, sempre. È bene dire che il lavoro sulle gru non ti stanca fisicamente,
ma mentalmente. Il livello di concentrazione deve essere sempre alto. E questo
provoca molto stress.
Dunque
la situazione lavorativa non è delle più facili. Inoltre il rischio di scoprire
in futuro di avere una brutta malattia non ti ha mai fatto pensare di lasciare?
Sinceramente no, perché
comunque il lavoro all’Ilva è una sicurezza economica. E poi non è che in
fabbrica muoiono così tante persone.
Sul
posto di lavoro per incidenti magari no, però molti hanno scoperto di avere
tumori o altre malattie direttamente collegate all’ambiente in cui avevano
vissuto?
Diciamo che non ci pensi… è meglio
non pensarci.
E
la vita continua, cantava Vasco Rossi. Ci si assume il rischio di andare a lavorare.
Pensi che a te non succederà
niente di brutto e vai avanti.
Ritornando
ai sindacati, tu sei iscritto ad un sindacato?
Si, alla Uilm.
Che
in questa vertenza si è schierata contro la magistratura.
No, contro la magistratura
no; perché ciò che sta facendo la magistratura è giustissimo. Quello che non
condividiamo pienamente con la magistratura è la decisione di chiudere la
fabbrica per modernizzare gli impianti.
Cioè
l’Ilva non si deve fermare?
No, non deve chiudere, deve
continuare a produrre.
Perché?
Per vari motivi: se chiudi a
noi lavoratori dove ci metti? La cassa integrazione hanno detto che non c’è,
quindi c’è la mobilità. Oppure si parla di messa in libertà: cioè si va a casa
senza lavoro, ma si resta comunque dipendenti Ilva in attesa che la situazione
si sblocchi. Di questo si sta parlando in azienda. E poi se non produci perdi
il mercato e come lo riprendi il mercato che avevi tra quattro, cinque o sei
anni? Quattro o cinque miliardi di investimento come li recuperi? A prescindere
dal fatto se loro (la proprietà dell’Ilva, Ndr) se li sono già guadagnati…
sicuramente hanno guadagnato anche di più.
La
Uilm e la Fim sono sulle stesse posizioni.
Sì, far fermare gli impianti
poco per volta, continuando a produrre. Così come ha detto il ministro
dell’Ambiente Clini. Personalmente condivido la posizione del mio sindacato
(Uilm, Ndr).
Parliamo
del sindacato e di quello che fino a ieri faceva. Si sentiva la presenza del
sindacato?
No, non la sentivi per
niente. Lo sentivi solo quando c’era da fare uno sciopero, non lo vedevi mai in
giro. A parte la Cgil, più presente per un periodo rispetto agli altri. Adesso
con questa situazione è uscito il sindacato. Per farmi capire meglio voglio
raccontare un episodio. Noi abbiamo lottato per ottenere il cambio tuta, cioè
quel tempo durante il quale l’operaio si cambia l’abbigliamento, aspetta
l’autobus interno che ti porta al reparto e poi di nuovo allo spogliatoio alla
fine del turno. Questo tempo fino a poco tempo fa non era retribuito. Noi
abbiamo fatto qualche sciopero, ci siamo fatti sentire. E siamo arrivati a un
accordo: tutti e tre i sindacati, se non erro, sono partiti da cinque euro di
retribuzione in più al giorno e cinque-sei mila euro di arretrati, per gli
ultimi dieci anni di lavoro, per ogni operaio.
Com’è
andata a finire?
Ci sono state varie
trattative tra azienda e sindacati, la Cgil s’è fatta fuori e siamo arrivati a
un euro e novanta centesimi al giorno e millesettecentocinquanta euro di
arretrati. Da come erano partite le richieste a quello che i sindacati hanno
ottenuto c’è una bella differenza. Perché?
Appunto
perché?
Perché i sindacati hanno
“mangiato”. Noi questo accordo lo abbiamo firmato da ignoranti, così vogliamo
essere chiamati, perché credevamo che il sindacato ci stesse proteggendo invece
ce l’ha messo a quel posto! Abbiamo firmato a gennaio, a febbraio invece gli
operai dell’Ilva di Genova hanno avuto cinque euro al giorno e circa cinque
mila euro di arretrati. Perché?
Perché?
Perché lì hanno le palle.
Perché il sindacato lì non è corrotto come il nostro.
Magari
anche gli operai hanno una maggiore coscienza.
Sicuramente, ma anche più
coraggio.
Forse
anche perché la situazione al nord è tale da far sentire gli operai meno sotto
scacco.
Da noi si diceva che se non
accettavi l’accordo ti creeranno problemi. Queste erano le voci che giravano.
Ti sposteranno in aree dove sarai sottoposto a maggiore stress. Cose di questo
genere. Quindi siamo stati anche costretti a firmare. Molti non hanno firmato e
sono andati per vie legali: e poi si sono ritirati perché il gioco non valeva
la candela.
Della
serie prendi i soldi e zitto.
Sì. Fai conto che non ti
spettavano e hai avuto millesettecentocinquanta euro così dal nulla, regalati.
Questo episodio dice bene chi è e cosa faceva il sindacato in azienda prima che
succedesse quello che tutti adesso sappiamo.
Non
si era mai visto che caschi rossi e caschi bianchi (operai e impiegati) si
unissero per un destino comune. Quale è stata la scintilla?
Inizialmente per garantire
il posto di lavoro. Durante i primi scioperi eravamo uniti contro la
magistratura. Però poi le numerose notizie fuoriuscite e le intercettazioni in
cui politici e giornalisti, preti e vescovi dicevano di tutto e di più... Cose
impensabili, nessuno di noi immaginava tutto questo. Dopo tutte quelle notizie
abbiamo riconosciuto che la magistratura aveva ragione.
E
invece per quanto riguarda la sicurezza sul posto di lavoro ci sono stati
progressi?
L’azienda su questa questione
ha fatto qualcosa di giusto, mettendoci in condizione di non subire più troppi
infortuni.
In
che modo?
Istituendo il Sil, cioè un
organismo che si occupa della sicurezza interna. Inoltre l’azienda ha istituito
un premio di cento euro, se non sbaglio, che ogni operaio riceve quando gli
infortuni mensili nel proprio reparto sono inferiori a quaranta.
Uno
strumento utile a far alzare il livello di attenzione.
Questa piccolezza ci fa
tenere ancora di più gli occhi aperti. Ma non c’è solo questo: anche a livello
di macchinari oggi c’è più sicurezza.
Lo
“Speciale Taranto” che ospitiamo sul blog è iniziato con la recensione di
“Invisibili” libro scritto a due mani da Fulvio Colucci e Giuse Alemanno. Ti
senti anche tu invisibile agli occhi della città?
No, io non la sento lontana anzi,
anche perché se Taranto perde l’Ilva perde anche un giro economico non
indifferente. Per questo bisogna mettere in condizione la fabbrica di non
inquinare, perché così non si può andare più avanti.
Nel
libro “Invisibili” Alemanno racconta che gli operai giocano a calcetto in una
struttura messa a disposizione dall’azienda anziché parlare di politica. È
vero?
C’è una struttura a Taranto
che è dell’azienda e che la stessa l’ha ceduta al sindacato. Lì i sindacalisti e
i loro famigliari possono giocare, riunirsi e fare mangiate, non gli operai. Tutto
ciò serve a farli stare in silenzio, come hanno fatto fino a pochi mesi fa.
Quindi
si può dire che il sindacato era l’alleato interno della proprietà?
Sì, l’alleato fondamentale.
Invece
i tuoi famigliari, tua moglie, i tuoi amici cosa pensano? Cosa ti dicono?
È una situazione brutta,
perché per un genitore o per una moglie sapere che il proprio figlio o il
proprio marito possa perdere il posto di lavoro non è una cosa bella. Speriamo
che la situazione si risolva al meglio, speriamo che l’azienda investa. Noi
aspettiamo che qualcuno ci comunichi quello che sta succedendo. Noi non
sappiamo niente, la proprietà non sta a Taranto. Quello che sappiamo lo
leggiamo sui giornali.
martedì 16 ottobre 2012
Speciale Taranto - Interviste ai protagonisti della città
Questo Speciale Taranto è uno
spazio dedicato alla questione delle questioni: l'inquinamento della città
jonica e le malattie ad esso correlate; oltre che il lavoro e il ricatto
occupazionale che ad esso afferisce. Ho cercato di capire e ho deciso di farlo
parlando con i protagonisti: operai, sindacalisti, giornalisti, scrittori,
cantautori, attivisti, politici, ministri. La strada non è stata semplice da
percorrere, ma ad ogni intervista ho capito qualcosa in più e ho cercato di
trasmetterla a voi lettori.
Di seguito i link delle
interviste e degli articoli realizzati fin ora:
"C'è un meschino disegno: tenerci le fabbriche inquinanti e difendere i posti di lavoro": parla Cataldo Ranieri operaio tarantino Ilva
Taranto non molla: domani Corte Costituzionale sulla legge "Salva Ilva"
Taranto: il mostro deve morire. Reportage dalla città in pacifica rivolta
Legge "salva Ilva": la Corte Costituzionale dà l'ok, ma non salva l'Ilva
Recensione del libro
"Invisibili - Vivere e morire all'Ilva di Taranto" di Fulvio Colucci
e Giuse Alemanno
di Vito Stano (16.10.2012)
“Sulle rotaie interne
all’Ilva scorrono treni che portano enormi chiocciole d’acciaio: la produzione.
E tutti noi sappiamo che chissà in quale modo abbiamo contribuito a creare
quelle lamiere lucenti. Abbiamo orgoglio di questo. Chissà se è giusto, però.
Ne parlerò ad Antonio, lui queste cose le sa di certo”.
Mi piace iniziare con
queste parole il racconto di “Invisibili - Vivere e morire all'Ilva di
Taranto”, un libro snello di 111 pagine in tutto, scritto a due mani
da Fulvio Colucci e Giuse Alemanno. Il primo,
giornalista dell’edizione tarantina de La Gazzetta del Mezzogiorno e il
secondo scrittore e operaio metalmeccanico presso lo stabilimento
tarantino del gruppo Riva. La particolarità di questo racconto è che a tratti
in forma squisitamente di cronaca e in altri in forma più narrativa si parla
dei lavoratori e non dell’inquinamento, come siamo abituati a sentire o a
leggere. Gli invisibili sono appunto i lavoratori, ma invisibili agli occhi di
chi? Di Taranto, dei cittadini della città magno greca, presenti soltanto ai
funerali di qualche operaio conosciuto in vita.
La forza di questo libro
l’ho scovata nelle testimonianze di un vecchio metalmezzadro (termine degli
anni Settanta coniato da Walter Tobagi per individuare la caratteristica dei
metalmeccanici tarantini: la dualità fabbrica e campagna), il quale con la
semplicità che è propria di un uomo che ha lavorato la terra predice a Fulvio
Colucci quale sarà il futuro degli operai: tornare alla campagna. Quest'ultima,
appunto, come luogo fisico della fuga verso la sicurezza economica offerta
dalla fabbrica e sempre la campagna come luogo della fuga dalla fabbrica questa
volta, dai suoi assordanti rumori, dai pericoli del lavoro, dall'alienazione. Gli
operai però sono cambiati e negli anni anche gli argomenti di discussione tra
di loro sono mutati: le lotte operaie, per ottenere migliori condizioni sul
posto di lavoro ma anche fuori dalla fabbrica, hanno lasciato terreno a sogni meno
ideali e più materiali. Il calcio e la tv con i loro protagonisti riempiono i
dialoghi tra operai e anche il tempo libero rubato alla discussione politica o
sindacale, tanto cara ai vecchi metalmezzadri.
“Quella classe operaia
si è spenta. E in paradiso (come recitava il titolo del film con Gian Maria
Volentè La classe operaia va in paradiso, Ndr) non ci è arrivata
mai. Figuriamoci. È stata soppiantata da questi ragazzi, ora qui intorno a me.
E io tra loro, in un gioco di specchi che sarebbe piaciuto ad Arthur
Schnitzler. Tutti insieme in attesa di smontare il turno”. Così scrive Alemanno
di sé e dei suoi colleghi. Andare in fabbrica contando le ore, i minuti per
tornare a casa. Vivi. Perché dalla fabbrica tanti sono usciti morti, a causa di
incidenti sul lavoro. “Ma - continua Alemanno nel suo racconto –
noi che lavoriamo qua dentro sappiamo bene che la colpa non è solo della
fabbrica. Tutti (anch’io) ci comportiamo in modo poco rispettoso delle regole
di sicurezza. Questi comportamenti sono frutto di superficialità, di una
maledetta ingiustificata fretta indotta, di scarsa concentrazione dovuta al
poco riposo e alla sicurezza sciocca data dal fatto che certe azioni si sono
ripetute mille e mille volte.” E poi “ci sono i problemi che vengono da una fabbrica
vetusta che ai record di produzione non fa conseguire un rapido rinnovo di
mezzi e strutture. (…) Ma lo strazio di un morto sul lavoro è difficilmente
spiegabile (…) passato il momento della commozione tutto torna come prima, o
almeno così sembrerebbe. Invece così non è perché manca uno di noi. Uno che non
tornerà più. Un lavoratore”.
E Alemanno, lo
scrittore-operaio, insiste sulla quotidianità del lavoratori dell’Ilva, quando
dice che i ragazzi non si impegnano per la gloria dell’azienda o per la soddisfazione
dei capi, “ma lo fanno esclusivamente per loro stessi. Per un lavoro sicuro e
affidabile che permetterà loro di vivere dignitosamente pur nella
consapevolezza di essere tutti i giorni a rischio.”
E tra la fabbrica e
l’indifferenza della città ci sono “i bimbi di Taranto che – come scrive
Colucci – non hanno fucili, né elmetti (…). Le uniche armi sono i
disegni e le parole di un’ingenua, possente, vitalità”.
“Invisibili – Vivere e
morire all’Ilva di Taranto” di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno
- Edizioni Kurumuny (euro 10,00)
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